Non stava mai fermo, ROSA.
Mai e mai.
La sua “colpa” era di sentirsi sempre
felice, felice da scoppiare, con la voglia
di ridere, e correre, rotolare, fare le
capriole, e gridare.
Colpa? Proprio così.
E sapete perché?
Immaginatevi di avere il nome
di un FIORE, e il fiore
più amato al mondo.
Ti fai ammirare, immobile
come una statua.
E tutti s’aspettano che tu sia delicato, e
profondo, e riflessivo, e magari un po’
altezzoso, o innamorato.
ROSA invece era più scalmanato
di una LEPRE.
«Hai un’aria indecente»,
lo rimproveravano di continuo. «Cosa ne
è stato dell’abito pulito, della camicia
inamidata?».
E poi quello sguardo,
che lo perseguitava,
quell’idea di non essere mai all’altezza del
nome.
Il nome che portava.
Non sapeva davvero che fare, ROSA,
perché gli piaceva essere
a quel modo, sentire
la felicità esplodere quando correva più
rapido del VENTO.
Si tuffava negli STAGNI,
inseguiva i raggi del sole e
avrebbe amato così tanto
poter condividere quelle sensazioni
con gli altri.
Ma a nessuno intorno
andava giù che facesse a quel modo.
O si accigliavano, o scuotevano la testa,
e qualcuno, cinico, sussurrava:
«E pensare che viene da una famiglia
così rispettabile».
Si vergognava,
e si arrabbiava anche.
Gli sembrava di dover scegliere
tra chi era e chi gli altri
pretendevano che fosse.
«Tra tutti i colori
io dovevo nascere
proprio ROSA?»,
sbuffò un pomeriggio,
calciando con violenza
un SASSO, che colpì
un bidone della spazzatura.
«Beh», gli fece eco una voce roca.
«E quale altro colore mai potrebbe essere
migliore di questo?», lo redarguì.
ROSA si guardò attorno, e
infine distrinse proprio
dentro quel contenitore dei rifiuti
una piccola MATASSA un po’ rosa,
un po’ grigia, un po’ non sapeva come.
«E tu chi saresti?», domandò ROSA.
ROSA non aveva la minima idea
di chi avesse davanti.
«Come chi sarei?»
Rispose l’altra, offesa.
«Ma sono la SCARPETTA ROSA, non lo vedi?».
«Ho calcato tutti i più grandi
palcoscenici del mondo», cominciò
Scarpetta Rosa.
«Dall’Opéra di Parigi, al Bolshoi a Mosca,
alla scala di Milano, e poi l’Arena di Verona,
la Fenice a Venezia.
Ho lavorato al New York City Ballet,
ho partecipato all’inaugurazione dell’NNTT
di Tokyo, nel 1966, il Nuovo Teatro Nazionale
di Tokyo appunto», precisò, sussiegosa.
«Povera te»,
la interruppe ROSA, sbadigliando.
«Ubbidire a tutti i passi,
le coreografie, le prove.
Meglio andarsene a zonzo
a PIEDI NUDI, e con la faccia sporca,
senza che nessuno
si ricordi nemmeno il tuo nome»,
sbuffò con troppo impeto.
Scarpetta Rosa lo fissò, interdetta:
«Tutti faticano per avere
il loro quarto d’ora di celebrità e tu,
che sei nato al centro della scena,
tu, che prendi il nome
dalla REGINA dei fiori,
vorresti rinunciarvi?».
«Esatto», confermò ROSA.
«Non sai quanto sia stressante
dover essere come
non riesci a essere».
Quell’affermazione colpì Scarpetta Rosa.
La sensazione la conosceva bene:
ROSA era in preda alla paura di deludere.
«Non ci si sente mai all’altezza,
quando si hanno gli sguardi di tutti addosso», si
ammorbidì Scarpetta rosa.
«Ma non c’è solo il peso sai?
Gli altri si aspettano che tu dia forma
ai loro SOGNI più segreti,
le loro aspirazioni».
ROSA la fissava, ma
non mostrava nessuna emozione.
«Non capisci?»,
insistette Scarpetta rosa.
«Sul palcoscenico noi diventiamo
il mezzo per realizzare
i desideri di chi ci ammira», constatò.
«Dura lo spazio di uno spettacolo,
forse, o per il tempo
in cui un FIORE appassisce.
Ma è un tempo magico, incantato.
Non si dimentica più».
Un velo di malinconia si posò
nello sguardo di Scarpetta rosa.
Perché quel tempo, per lei, era passato.
«C’è molta generosità
in questo che descrivi», disse ROSA, colpito.
«Nessuno è nato per bastare solo a se stesso», gli
fece eco Scarpetta rosa.
«A volte voi giovani sembrate dimenticarlo».
Quindi prese a massaggiare
la stoffa che doleva,
a sistemare i NASTRI sfilacciati.
ROSA vide tutto: c’era uno strappo
vicino alla caviglia e Scarpetta rosa viveva lì,
nel CESTINO in cui era stata gettata,
forse perché troppo vecchia,
troppo usata, sbiadita.
«M’insegneresti a stare su un palcoscenico?»,
le domandò d’istinto ROSA,
«in modo che io sappia
far sognare come te».
Scarpetta Rosa si aprì
in un largo SORRISO, e annuì.
Quindi con grazia si avvitò
su se stessa e compì alcuni passi.
ROSA la imitò con un’attenzione
che stupì l’insegnante.
Era un allievo molto promettente.
Scarpetta Rosa sapeva
che a volte bastava raccontare
la propria esperienza
per rassicurare le paure
di chi ancora esperienza non aveva.
E raccontare faceva bene a tutti,
anche a chi credeva
di essere ormai un po’ troppo vecchia,
o sdrucita, o consumata.
Perché se era forse vero che
la celebrità durava un quarto d’ora,
la memoria della bellezza non finiva mai, e si
trasmetteva solo e soltanto così: condividendola.
Scarpetta rosa e ROSA danzarono
con eleganza e leggiadria per ore e ore, fino a che
giunse il TRAMONTO.
Che quella sera era rosa, più rosa che mai.
.