LA FIABA DELL’ARANCIONE

Se ne andava in giro ciondolando,
quel mattino, ARANCIONE.
E non che fosse la prima volta,
per la verità. Era un tipo che
s’annoiava facilmente.
Partiva in quarta, tutto brillante
e determinato, e, invece,
dopo appena qualche istante,
ecco che perdeva interesse,
si distraeva, sbiadiva.
A dire il vero quell’incostanza c’era
stata in lui fin dall’inizio.

Per secoli, se lo si voleva creare,
non si poteva unire il giallo al rosso,
come sanno tutti. Sarebbe stato
considerato un miscuglio impuro,
secondo le scritture sacre.
Allora si ricorreva allo zafferano,
una polverina molto apprezzata nei
risotti, oggi, che però somiglia
più a un giallo scuro
che ad ARANCIONE.

Alla fine del Medioevo
si preferì invece un’essenza
che si chiama Brasile - sì, sì, proprio
come la nazione, ed era una sostanza
proveniente dalla Indie e da Cylon.
Insomma, una cosa che
ARANCIONE aveva compreso, era
che molta della sua storia
era cambiata grazie ai viaggi
lontanissimi.

Il nome stesso gli veniva da lì:
derivava da una pianta, un agrume,
che a sua volta era nata da un
ibrido, così si chiamano in natura
i “MATRIMONI”, quello tra una
specie chiamata pomelo, Citrus
maxima, e il mandarino, Citrus
reticulata, originario del sud-est
asiatico, Citrus x aurantium,
o arancio amato.

Si litigava spesso, però,
a casa di ARANCIONE
a causa delle origini.
Molti sostenevano che no,
loro non erano del ramo arancio amaro,
ma di quello dolce, Citrus sinensis,
e si accapigliavano sulle sfumature.
Quando scoppiavano quelle scenate,
cioè praticamente ogni giorno,
ARANCIONE se ne andava in silenzio.

A lui proprio non importava.
In fondo, che cosa cambiava?
La sola cosa che aveva rilievo
era che dentro di loro scorresse
una linfa di avventurieri.
Ad ARANCIONE
sarebbe piaciuto viaggiare,
lontano, lontano.
Quel mattino, ARANCIONE
si trascinò svogliato di qua e di là.
Attraversò la città quasi deserta.
Faceva molto caldo.

L’estate era appena cominciata,
ma il termometro superava spesso
i trenta gradi e in giro la gente
si sventolava, nervosa,
con i VENTAGLI.
Camminando senza meta,
giunse in una piccola area verde
che sorgeva nella cintura attorno
alle strade asfaltate.
Non si era mai spinto da quella
parte, chissà perché.

A volte si pensa che il mondo
da scoprire sia distante, e ci si
dimentica dei piccoli segreti
preziosi che
sono a portata di mano.
Il bel cancello in ferro battuto
era aperto. Sopra, la scritta in
eleganti caratteri diceva:
ORTO BOTANICO.

ARANCIONE si spinse verso uno spazio
che trovò incantevole, ombroso,
e con una serra antica, di quelle piene
di vetri e dove si distingueva
il canto allegro degli uccelli.
Decise di fermarsi.
Si distese a terra, posò la testa contro
un vaso e chiuse gli occhi.
Il vento danzava, era una lieve brezza
che somigliava a una ninna nanna.

Fu così che, senz’accorgersene,
ARANCIONE si acquietò.
Ma all’improvviso sentì chiamare
il suo nome.
«Sali, forza, ti stiamo aspettando».
La voce era roca e molto decisa.
Voltandosi, ARANCIONE
vide davanti a sé un CAPITANO,
di quelli che comandano,
o almeno così sembrava
dal modo in cui era vestito.

«Non sei qui per la spedizione?»,
gli disse l’uomo.
«La spedizione?», balbettò,
disorientato, ARANCIONE.
«Stiamo per intraprendere il lungo
viaggio verso la VIA DELLA SETA,
non ti dice niente? Ci spingeremo
per chilometri e chilometri,
arriveremo lontanissimo,
fino alla Cina
e nel sud-est asiatico.

Porteremo con noi piante e cibi
e spezie e conoscenza, e faremo
ritorno conducendone altre»,
ruggì, brusco, il comandante.
ARANCIONE ricordò d’un tratto
Alessandro Magno, che l’aveva
intrapresa, e Marco Polo con quel
suo antico libro Il Milione,
la Cina e il Kublai Kan.
Quelle lezioni di storia
lo avevano avevano incantato,
non si era affatto annoiato.

«Certo», rispose, senza pensarci,
al capitano, portando la mano
alla fronte in segno di ubbidienza.
«Eccome che parto, signore».
«Mi sembra poi, se non sbaglio»,
bofonchiò il capitano, «che qualcuno
dei tuoi antenati abbia già fatto questa
stessa avventura in passato.
Un bell’ALBERO, non c’è che dire,
e con dei frutti così deliziosi e di una
tinta tanto calda che già a guardarla
riempiva la bocca e il cuore.

Avevano esattamente
il tuo stesso colore».
ARANCIONE si sentì lusingato
e pieno di orgoglio.
«Sarà un onore, capitano»,
disse, con voce solenne,
«ripercorrere il cammino
dei miei avi. Si ha sempre tanto
da imparare dalla storia».
Il suono di un CAMPANELLO
trillò con insistenza.

«Si chiude», urlò qualcuno.
«I visitatori sono pregati di uscire».
ARANCIONE si riscosse.
Che cos’era successo?
Dov’era il capitano?
E la via della Seta?
Ma attorno non c’era proprio NESSUNO.
ARANCIONE stropicciò gli occhi,
deluso. Era stato un sogno,
soltanto un sogno. E gli dispiacque
tanto che non fosse tutto vero.

.

Si alzò di scatto.
Ma mentre si allontanava verso
i cancelli, gli parve di udire un
sussurrio alle sue spalle.
E la voce era la stessa del capitano.
«Non occorre andare lontano
per scoprire chi si è», stava dicendo.
Cercò di capire da dove provenisse,
e il suo sguardo si fermò sul vaso
a cui era restato appoggiato:
dentro cresceva una splendida
pianta di ARANCIO.

ARANCIO sorrise e cominciò a correre
per essere certo di non rimanere
chiuso nell’orto botanico.
Solo quando raggiunse i cancelli,
si accorse di non avere letto
la targhetta: era un CITRUS
AURANTIUM o un CITRUS SINENSIS?
«Non fa nessuna differenza»,
disse tra sé, accelerando la corsa.
«Basta che dentro ci sia tutta
l’avventura del mondo»,
e si diresse verso casa.
Era quasi ora di cena.
Stava davvero morendo di fame.

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