Oltre il rosa e l’azzurro. Diritti dell’infanzia oltre gli stereotipi di genere

Erika Bernacchi – Ricercatrice Istituto degli Innocenti e Margherita Barsi – Consulente Istituto degli Innocenti

L’Istituto degli Innocenti di Firenze (che comprende anche il Museo degli Innocenti) è una delle più antiche istituzioni italiane dedicate alla tutela dell’infanzia. Dal 5 febbraio 1445, giorno in cui venne accolta la piccola Agata Smeralda, l’Istituto opera in favore dei bambini e delle famiglie. Da anni F.I.L.A sostiene le attività culturali dell’Istituto e le attività educative proposte a bambini, scuole e famiglie all’interno della Bottega dei Ragazzi. Quello che segue è un contenuto speciale che l’Istituto ha realizzato in esclusiva per Diario Creativo. Uno spunto prezioso di riflessione sul tema dell’educazione oltre gli stereotipi di genere.

Cosa sono il rosa e l’azzurro, se non due splendide sfumature di un vasto spettro visibile? Come testimoniano studi storici e antropologici, per secoli in alcuni contesti geografici il rosa è stato ritenuto un colore più adatto al sesso maschile, mentre le sfumature di azzurro e blu più confacenti a quello femminile. Il tempo e l’avvento del marketing di genere hanno contribuito a cambiare le idee associate a questi colori, con stereotipi opposti. È la prova che tutto è soggetto a cambiamenti e che tutti gli aspetti della cultura sono sottoposti a un’evoluzione continua. Dagli anni Trenta del Novecento il rosa e l’azzurro diventano dei codici cromatici, spesso utilizzati per identificare e distinguere i bambini e le bambine. Non c’è nulla di innato quindi nel significato che attribuiamo a ciascun colore; esistono soltanto gli usi e i costumi di una determinata società in un preciso momento storico e il loro consolidamento negli anni. Ciò che percepiamo al giorno d’oggi in relazione ai due colori per eccellenza identificativi di genere è frutto di un retaggio culturale proveniente da abitudini consolidate e educazione improntata sulla distinzione dei due generi, maschile e femminile, fin dalla prima infanzia, con tutte le implicazioni che ne derivano. Molte delle cose che diamo per scontate non sono altro che sovrastrutture di cui è possibile liberarsi quando comprendiamo che non rispondono più al nostro modo di vedere le cose e di rappresentarci. Molte idee stereotipate sono però ancora profondamente radicate, un esempio è l’associazione di alcuni compiti esclusivamente al padre o alla madre.

Il nascere maschio o femmina incide profondamente sull’implementazione di molti diritti specialmente in alcune aree del mondo, a partire dal diritto alla vita, alla sopravvivenza, a vivere liberi da violenza, discriminazioni, al diritto alla salute e all’istruzione. A tutte le latitudini gli stereotipi di genere, vale a dire le norme e le consuetudini culturali associate all’essere maschio o femmina, hanno conseguenze profonde sulle scelte formative e quindi su quelle professionali di ragazzi e ragazze. Ad esempio, in Italia le ragazze costituiscono la stragrande maggioranza degli studenti delle scuole superiori di scienze umane (89,1%), mentre a livello universitario le donne costituiscono la maggioranza dei laureati negli ambiti dell’insegnamento (94%), della linguistica (85%), della psicologia (83%) e delle professioni sanitarie (69%). Al contrario le professioni scientifiche e tecniche, in particolare l’ambito delle STEM (Scienze, Tecnologia, Economia e Matematica) continua ad essere dominati dai ragazzi che costituiscono la maggioranza di iscritti ai licei scientifici (circa 70%) e dei laureati in ingegneria (75%) e in ambito scientifico (66%). Questi dati sulla segregazione formativa sono il risultato di una socializzazione di genere che coinvolge l’ambito scolastico, le varie agenzie di socializzazione oltre alla famiglia e al contesto dei pari.

La problematica che emerge è quindi come sia possibile attuare un’educazione sensibile al genere già a partire dalla prima infanzia? Inoltre, come è possibile educare gli uomini, fin dall’infanzia, a modelli di maschilità che si collochino in un sistema di relazione di genere lontano da quella che è stata definita “mascolinità egemonica” vale a dire un tipo di maschilità fondata su concetti di dominio e controllo dove non c’è spazio per la cura di sé e degli altri?
Porsi il problema di un’educazione di genere sin dalla prima infanzia, vuol dire fare i conti con una realtà in cui primeggia una relazione del maschile e del femminile di tipo oppositiva e complementare, in cui è presente una marcata asimmetria tra i generi, determinata da stereotipi che, a differenza del pensiero comune, iniziano a riflettersi sulle bambine e sui bambini già dalla prima infanzia. Già intorno ai 18 – 24 mesi i bambini riescono a riconoscere il genere sulla base dell’aspetto esteriore, come capelli, vestiti. Le rappresentazioni di genere vengono fornite dagli adulti secondo il modello del doppio standard e della doppia morale, ovvero secondo l’idea che bambine e bambini debbano comportarsi secondo degli standard di genere basati su un modello binario. Essi possono essere più o meno accettate dai bambini e dalle bambine in virtù del fatto che maschi e femmine, sin dall’infanzia, non sono agenti passivi ma partecipano attivamente nella costruzione della loro identità di genere. Ciò avviene, ad esempio, nelle loro attività di gioco. Se una serie di progressi sono stati realizzati negli ultimi anni nell’ambito dei servizi per la prima infanzia, a partire dalla creazione di spazi di gioco comuni in cui bambini e bambine possono giocare indifferentemente nell’angolo della cucina o delle costruzioni, molto resta ancora da fare in particolare per incentivare una relazione positiva tra maschilità e cura. Interrogarsi sui modelli educativi sensibili al genere significa infatti anche includere il maschile e la relazione tra cura e maschilità, già a partire dalla prima infanzia, promuovendo un modello di caring masculinities (maschilità accudenti), in modo da prefigurare nuove relazioni di genere a partire dal maschile. È questo l’obiettivo del progetto europeo Early Care and the Role of Men , di cui l’Istituto degli Innocenti è partner perché l'equità di genere passa anche e soprattutto dall'affermazione di una maschilità diversa, non egemonica ma accudente, coinvolta e partecipe anche delle funzioni e dei ruoli educativi e di cura. Lo stesso obiettivo è stato al centro di un altro progetto europeo che ha coinvolto l’Istituto degli Innocenti “Boys in Care. Supportare i ragazzi nell’intraprendere professioni di cura” che a partire dai dati sulla segregazione formativa e sulla scarsa presenza maschile nell’ambito delle professioni di cura ha lavorato sul tema dell’orientamento scolastico e professionale per fornire agli insegnanti una serie di strumenti didattici per lavorare sul rapporto tra scelte educative e professionali e stereotipi di genere anche attraverso la proposizione di modelli di ruolo. Nell’ambito del progetto sono state realizzate delle video interviste a uomini impegnati in professioni di cura, educatori, assistenti sociali, psicologi per rendere visibile una presenza che spesso rimane nascosta e che è invece importante mostrare. I ragazzi e gli uomini che svolgono ruoli di cura rivelano infatti un’opportunità per altri uomini di approfondire le relazioni di cura contribuendo a una società più sana e più accudente. Inoltre, una maggiore eterogeneità nei modelli di mascolinità è utile a dimostrare come la rigidità delle norme di genere possa essere allentata.

Jacopo Reali educatore presso i servizi per la prima infanzia dell’Istituto degli Innocenti racconta: “Un lavoro che è prevalentemente femminile, […]  all’inizio ho trovato un po’ di muri, sia da parte delle educatrici che dei genitori, ora è cambiato tanto, ora ci sono anche molti più babbi che vengono a prendere i bambini, fanno i colloqui con gli educatori, ora i babbi sono molto più presenti”, mentre Paolo Allegranzi, educatore presso l’Istituto degli Innocenti dal 1990, conclude: “Mi sentirei senz’altro di consigliare questa professione ai giovani maschi che intendono intraprenderla perché è straordinaria come tipo di esperienza.”

Purtroppo, la rappresentazione delle professioni nei libri di testo è spesso ancora fortemente stereotipata, come dimostrano le ricerche condotte da Irene Biemmi. Non è raro, ad esempio, trovare vignette che mostrano la madre ai fornelli e il padre che ritorna dal lavoro con la classica valigetta ventiquattrore e il modo in cui le professioni sono presentate ai bambini già dalla prima infanzia segue spesso binari di genere. A questo si aggiunge il fatto che il personale educativo nelle scuole e nei servizi 0-6 anni è ampiamente femminile (con una presenza maschile nei servizi 0-6 anni quasi trascurabile che complessivamente non arriva all’1% e che aumenta leggermente con l’età degli alunni) e ciò è sufficiente a trasmettere a un chiaro messaggio a studenti e studentesse su quali sono i “mestieri da maschio” e i “mestieri da femmine”. Per questo è fondamentale lavorare in ambito educativo per sfatare i “miti sul genere” fornendo a educatori, educatrici e insegnanti strumenti per decodificare gli stereotipi di genere di cui è ancora intrisa la nostra società e per poter orientare studenti e studentesse a scelte educative che corrispondano quanto più possibile alle loro inclinazioni e abilità piuttosto che a percorsi già segnati.

Sarebbe infatti auspicabile intendere l’educazione come accompagnamento alla ricerca e determinazione di sé, incoraggiando i bambini e le bambine a scelte personali che saranno giuste anche se non conformi alle aspettative altrui, con riferimento al genere di nascita. Ogni esempio positivo contribuisce a creare una nuova cultura e sarebbe ideale che ogni famiglia possa essere libera di realizzare il proprio progetto di vita, offrendo ai più piccoli, con il supporto della scuola, una educazione libera da ruoli prestabiliti, creando così un terreno neutro e fertile per lo sviluppo del bambino e della bambina, qualunque sia la sua inclinazione.

Contrastare gli stereotipi è un atto di libertà, possibile e necessario se ha come obiettivo quello di riconoscersi e autodeterminarsi anche al di fuori di consuetudini e convenzioni sociali che sono incardinate nel comune sentire. Tale consapevolezza implica il riconoscimento del diritto di crescere nel rispetto della propria unicità, scegliendo di connettersi con sé stessi e rivelarsi senza paura di infrangere le aspettative di una società che tende a stabilire i comportamenti maschili o femminili secondo schemi predefiniti.

Educare alla parità di genere significa costruire relazioni fondate sul rispetto delle identità e sulla forza delle differenze individuali - in termini di linguaggio, espressioni, comportamenti - per un cambiamento culturale in una società in cui ciascuno possa dipingere la propria vita con i colori che preferisce. Per rendere concreto tale principio, occorre prima di tutto, come adulti - genitori, insegnanti, educatori -, adottare una predisposizione all’autoriflessione sugli stereotipi di cui noi stessi siamo, spesso inconsapevolmente, intrisi e portatori.

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